Tendenze e stile di vita

Quando la tigre fuma, l’aroma è diverse & plural

Abbiamo incontrato The Smoking Tiger di Antonio Tombolini, una torrefazione dalla storia recente, iniziata in un periodo tutt’altro che semplice – la pandemia da Covid-19 – ma tutta votata al futuro e alla trasparenza della filiera from bean to cup. 

  1. La storia di The Smoking Tiger è recente, si può dire che sia nata in un certo senso come reazione all’esplosione del Covid?

In qualche modo sì. Succedeva un anno e mezzo fa, nel pieno della prima ondata e del primo terribile lockdown, quando ospedali e terapie intensive erano al collasso, e tutti noi ci sentivamo, ancora più che adesso, spaesati e  impreparati a un evento così vasto e imprevedibile. Naturalmente nulla si improvvisa e il mondo del caffè era da tempo nel mio, chiamiamolo così, mirino professionale. Quella situazione però fu la molla che mi portò a decidere, ok, adesso si fa sul serio. C’era più tempo e più tranquillità per studiare, per prepararsi, per riflettere, per sperimentare, e così è stato.

  1. Per voi non esiste il caffè ma i caffè. Perché questa parola, e tutto il mondo che le ruota attorno, sono declinati al plurale?

Si tratta di un punto talmente importante per noi che proprio in questi giorni stiamo rinnovando la nostra grafica, a partire dal marchio: The Smoking Tiger, in tutte le sue declinazioni, sarà sempre accompagnato dal payoff diverse & plural, diversi e plurali.

Questa dicitura esprime i valori in cui credo, non solo riguardo al caffè, perché rende evidente in due parole ciò che differenzia i nostri Specialty Coffee da “un caffè“. La scelta dell’inglese non è solo un omaggio più o meno obbligato alla globalizzazione: in italiano diverso vuol dire semplicemente differente. In inglese vuol dire che valorizza le differenze: una cultura diverse è una cultura che ricomprende e tiene conto di tanti aspetti differenti e valorizza le differenze.  Plural è poi l’aspirazione a non essere uno, o pochi, è l’aspirazione a essere tanti.

  1. Congo, Honduras, Etiopia… Da dove arrivano i vostri chicchi?

Ma anche Perù, e Colombia, e presto Kenya, Papua New Guinea, Brasile… Arrivano da tanti paesi e da un unico luogo: i tanti paesi produttori di tutta la  fascia tropicale attorno al mondo, e l’unico luogo dello Specialty Coffee, ovvero la casa dei produttori e degli operatori del mondo del caffè che si auto-obbligano non solo a criteri di selezione e di qualità assolutamente stringenti, ma ancora prima e soprattutto a un requisito chiave, destinato a rivoluzionare letteralmente il mondo e il mercato del caffè: la trasparenza di tutta la filiera, dal contadino coltivatore, attraverso cooperative di lavorazione, esportatori, operatori della logistica, torrefattori, baristi, consumatori. Il 95% del caffè che fa ancora oggi il mercato non è un prodotto alimentare, ma un prodotto finanziario, trattato come un qualsiasi altro titolo alle borse di Londra e New York, senza alcuna possibilità di dare visibilità (e di conseguenza reddito) a chi si trova a monte della filiera di produzione, e innanzitutto agli agricoltori. Lavorando esclusivamente con Specialty Coffee facciamo una scelta di campo per la qualità, ma facciamo forse ancora prima  una scelta di campo per riportare il mercato del caffè a ciò che è e dovrebbe essere: una filiera agricolo-alimentare, da rendere sostenibile e redditizia per  tutti gli operatori che ne fanno parte, a partire proprio da chi coltiva le piantagioni.

  1.  Rispetto della materia prima e delle sue diversità, da esaltare prima di tutto: è questo il segreto?

Sì, ma non è un segreto. Piuttosto è un criterio a cui cerchiamo di attenerci, non facile, ma affascinante. Per questo non credo agli amici e colleghi che propugnano profili di tostatura diversi per uno stesso caffè in funzione del metodo di estrazione che verrà usato. In una parola non credo in una tostatura più scura se destinato all’espresso e più chiara se destinato al filtro. Credo che il dovere del torrefattore sia interpretare al meglio le peculiarità della materia prima che ha selezionato, e individuare per ogni caffè il profilo di tostatura che meglio esprime quelle peculiarità, senza curarsi dei metodi di estrazione a valle. Sarà poi compito fondamentale del professionista barista o brewer, o anche del singolo privato consumatore, cucinare quell’ingrediente eccellente nella maniera migliore, lavorando, come si può certamente fare, sul mix di variabili di cui si dispone in ogni metodo di estrazione: quantità di acqua/caffè, pressione, tempo, macinatura, ecc… Così facendo ho avuto il piacere immenso di gustare ottimi caffè espresso ottenuti da tostature chiarissime, tutt’altro che spiacevolmente acidi ma rotondi e dolci, così come caffè filtro ottenuti da tostatura più avanzate e decise, eppure vivaci e  vibranti in bocca.

  1. Perché siete sostenitori di una torrefazione breve?

Naturalmente non si tratta di un assoluto, che sarebbe ideologico, e la brevità  è relativa a ogni singolo caffè: alcuni caffè richiedono tempi più brevi, altri tempi più lunghi. Dobbiamo però tenere conto della tradizione italiana della torrefazione, che soprattutto negli ultimi 20 anni ha privilegiato spesso senza criterio tostature molto prolungate, che uccidono dolcezza e aromi (quando ci sono) per uniformare il gusto tutto e solo nella direzione dei sentori di tostato, e purtroppo spesso anche di bruciato e intollerabilmente amaro. Se   è vero che alcune tradizioni hanno forse in passato esagerato nella direzione delle tostature eccessivamente chiare à la scandinava, e ora stanno correggendo il tiro, è altrettanto vero che da noi il problema è ancora oggi l’opposto, e il rischio di sprecare una materia prima di altissima qualità, con tutto il lavoro che c’è dietro, rovinandola con tostature troppo lunghe, ottenendo bevande nel migliore dei casi lessate, piatte, e nel peggiore amare  e bruciate, è per noi il rischio da evitare.

  1. Una tigre che fuma la pipa, da cosa deriva il vostro brand e cosa evoca?

Ragionavamo tra amici, all’inizio di questa avventura, sul nome da dare alla nostra impresa, a una storia che cominciava caparbiamente in un periodo strano, tutt’altro che favorevole, e che sognavamo potesse diventare una lunga storia, magari una favola dal lieto fine. Mi ricordai allora di quello che avevo imparato da un amico coreano: in lingua coreana, quando si inizia a raccontare una storia, o una fiaba, per dire l’equivalente del nostro c’era una   volta… si usa un’espressione che tradotta letteralmente significa quando la tigre fumava… La nostra art-director Matilde Tacchini poi (professionista formidabile!) ha fatto il resto, mettendoci sotto gli occhi una tigre con la pipa dallo sguardo obliquo e irresistibile, e non abbiamo avuto esitazioni: The Smoking Tiger siamo noi!

  1. Coffee pairings: solo dolce o anche salato?

Non ho alcun dubbio! Così come impareremo ad apprezzare sempre di più la molteplicità dei caffè che il mondo ci offre, e la molteplicità e diversità dei metodi di estrazione, così impareremo a godere delle tante e spesso insospettabili opportunità di abbinamenti cui il caffè si presta, molto al di là di quel che siamo abituati a pensare. E certo, anche nella direzione del salato. Del resto come ignorare la grande tradizione anglosassone dei breakfast e dei brunch in cui dolce e salato trovano proprio nel caffè il loro trait-d’union? In questo sarà fondamentale il ruolo di Baristi e Ristoratori, ed è per questo che The Smoking Tiger annuncerà presto collaborazioni di altissimo livello in questo ambito.

  1. Come si possono abbinare oggi caffè e sostenibilità?

Il primo requisito e la pre-condizione anche per quanto riguarda la sostenibilità è di nuovo la trasparenza della filiera. Nessuna iniziativa è pensabile laddove non si possa operare tenendo conto di tutte le fasi, e di tutti i passaggi che il caffè deve compiere, dalla pianta alla tazza, from bean to cup, potrei dire mutuando il felicissimo slogan De’Longhi. E c’è un secondo requisito: si può parlare di sostenibilità ambientale se e solo se si lavora anche e contemporaneamente per la sostenibilità economica della filiera e del mercato del caffè. Non si possono pretendere pratiche ambientalmente sostenibili, soprattutto nella fase di produzione, pratiche che conducono normalmente a produzioni in quantità e rese più limitate, se non garantendo, a chi deve metterle in atto, livelli di reddito che rendano quelle pratiche economiche e remunerative. Questa è a mio avviso la sfida, al di là della gara già in atto troppo spesso di proclami ambientali destinati da sé soli a restare campagne pubblicitarie e poco più: sostenibilità ambientale e sostenibilità economica per  tutti gli operatori della filiera devono essere considerate un tutt’uno inscindibile, o il mondo del caffè sarà destinato a restare un mercato, come ahimé è in gran parte ancora oggi, letteralmente coloniale, in cui a vincere non è né la qualità né il lavoro che si dedica al prodotto con passione, ma la rendita finanziaria su una materia prima indistinta rappresentata da titoli finanziari.